Seconda tappa del progetto europeo REFEST “Immagini e parole sui percorsi dei rifugiati”

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A Osijek (Croazia) con Armin Graca, Carles Garcia e Franca Mancinelli


Con Borko Vukosav, Matija Kralj, Armin Graca, Mitar Simikić, Sara Santana, Carles Garcia e Franca Mancinelli. /Photo: Haris Čalkić/


Un racconto tratto dall'esperienza croata.

Attraverso lo specchio del tempo

Europa è diventata piccola, si può attraversare in poche ore. Cappuccino e cornetto all'aeroporto Galilei di Pisa. Pranzo a Monaco di Baviera con pretzel, bresaola e una weiss alla spina che lascia baffi di schiuma asprina. Infine, cena a Zagreb: pašticada e gnocchi di pane. Brindiamo al gruppo finalmente riunito con un bicchierino di pelinkovac, dolceamaro come il viaggio che ci aspetta.
«Absenta» sciocca la lingua Sara, la madrileña.
«El donzell amarg» l'apostrofa Carles in catalano.
«Pelin» mormoro io nella mia lingua madre, poi a voce alta concordo: «Assenzio.»
Nel liquido ambrato il mio riflesso ondeggia incerto, volubile come il confine linguistico.


Il giorno seguente il van lascia la capitale croata e sfreccia sulla E70 diretto a est, però la memoria si ostina a cambiare senso di marcia, tesa verso ovest.
Indietro oppure avanti? Il mondo è rotondo, ogni direzione – questione di prospettiva.
Due corsie opposte divise dallo spartitraffico di un quarto di secolo.


Anche tu sei partita il giorno prima. Colazione al lume di candela con pane e sirene, gocciolante salamoia fredda. Avresti preferito un toast, però la luce va e viene a singhiozzo. Anche il riscaldamento è elettrico, in casa devi indossare sciarpa e cappellino. Quando ti chini per infilare gli stivali, noti il pezzo di vetro sotto l'armadietto delle scarpe. È un frammento dello specchio che tua madre aveva fatto cadere alla notizia che stavi per partire.
Le era sfuggito di mano mentre lo puliva oppure lo aveva gettato a terra di proposito?
Stavi di spalle, incapace di guardarla negli occhi in quel momento. Temevi un rifiuto che saresti stata costretta a infrangere. Invece c'era stato soltanto lo schianto e i vostri riflessi che si sparpagliavano in mille pezzi. Allontanandosi uno dall'altro... E da se stessi...
Era solo un vecchio specchio a forma di cuore nudo, senza cornice. Tua madre affermava che nel vetro macchiato riusciva ancora a specchiarsi ragazza.
Ora sai che non guardava se stessa ma te...
Ti basterebbe dare retta a quella scheggia. Raccoglierla maldestramente, tagliandoti. La mamma accorrerà all'istante per medicarti e cercherà persino di trascinarti dal medico...
Uno specchio rotto porta sette anni di sfortuna. Grosso modo quanto durerà la crisi economica, poi il paese si riprenderà. Ma tu sarai già altrove e la spaccatura che ti porterai dentro non si rimarginerà più.
Intanto esci, diretta all'autostazione di Sofia, in quell'alba tardiva che lascia ancora la possibilità di girare sui tacchi e ripercorrere di corsa le proprie orme nella neve sporca. Non lo faresti mai, non sei una che guarda indietro. Almeno è quello che credi, e allora pranzo, cena e di nuovo colazione nel pulmino stipato, puzzolente di gasolio, calzini bagnati e rassegnazione. Chini, ognuno sul proprio pacchetto unto. Kashkaval, uova sode e salame shpek, acqua dalla tanica oppure dai rubinetti dei bagni pubblici nelle piazzole di sosta. Un brano di Lepa Brena in una stazione di servizio ti fa salire il magone in gola. Perché il ricordo delle due ore di fila che ti sei sorbita per comprare il disco Četiri godine, ora ti rende nostalgica?


Muri e governi sono crollati ma le code non sono sparite, si sono soltanto spostate. Non più davanti ai negozi vuoti, ma ai distributori di carburante razionato, al banco dei pegni, alle ambasciate. Laddove prima sbadigliavano le guardie, ora ci sono file di persone che girano attorno all'isolato come un serpente che si morde la coda. Il potere che divora e rigenera se stesso. Ne sei stata fagocitata e poi vomitata pure tu, con tanto di timbro nero sul passaporto nuovo di zecca. Dopo aver aspettato una notte intera davanti all'ambasciata greca e aver sborsato gli ultimi lev per una sfilza di tasse e marche da bollo, eri riuscita ad ottenere il visto turistico grazie alla lettera d'invito di certi amici di Salonicco. Solo che una volta giunta al confine, il permesso si era rivelato carta straccia senza la garanzia di un bel gruzzoletto di contanti o perlomeno di una carta di credito
Invece di una Mastercard, in credito avevi soltanto la vita.
L'autobus aveva proseguito, scaricando il tuo riflesso in mezzo ad una pozzanghera. Riluceva nei colori dell'arcobaleno, ma era soltanto olio sporco.
La burocrazia non ti avrebbe fregata ancora, stavolta sei partita per vie traverse, affidandoti a chi conosceva le smagliature nella rete di sicurezza. Per farlo hai venduto un vecchio orologio da taschino e le cartoline anni '30 con le dediche del nonno alla nonna.
Tradire il passato è più facile che tradire il futuro, almeno quando si hanno vent'anni.
Il Cavaliere, invece, di anni ne aveva cinquanta, forse addirittura sessanta. Lo hai conosciuto nei giardinetti della cattedrale Aleksandr Nevskij, al banco dell'usato. Si vantava di aver lavorato come traduttore per cinque presidenti italiani e tre papi, ma gli credesti solo quando vendette una croce d'oro col nastrino verde e certificato che diceva: Ordine al merito della Repubblica Italiana. E riportava il suo nome: Asen Marčevski. E mentre lo guardavi farsi piccolo, cittadino onorario all'estero, straniero in casa propria, maturavi la certezza che una volta raggranellati i soldi, anche tu saresti partita per l'Italia.

Sentirsi stranieri nella propria patria. Venticinque anni dopo mi sfiora lo stesso pensiero davanti ai volti perplessi dei due amici bosniaci quando si sentono negare l'ingresso in Slovenia. Il valico di frontiera di Harmica non permette il passaggio agli extracomunitari.
«Nell'estate del 2015 ho filmato migliaia di migranti che entravano liberamente in Europa proprio in questo punto» ribatte Matija, il filmmaker di Rijeka.


Il poliziotto ritira la testa nel gabbiotto come una tartaruga diffidente.
I fotografi bosniaci Mitar e Armin fanno parte del nostro gruppo, selezionato per un progetto internazionale. Stanno per partecipare ad una serie di festival in quattro capitali europee, eppure non riescono a muoversi liberamente nel paese che una volta era anche loro.
Rinunciamo al campo profughi di Dobova, in territorio sloveno, e mentre imbocchiamo la salita ghiacciata verso Vukovo Selo, il Villaggio dei lupi, nel taccuino di Carles si materializza il veloce abbozzo del valico di frontiera riflesso nello specchietto retrovisore.
«Lo sapete che lo specchio non inverte destra e sinistra, bensì fronte-retro?»
«Come quella guardiola con i suoi vetri blindati» osserva con amarezza Armin. «Credi di guardare avanti, invece vedi quello che hai alle spalle. Non importa chi sei, soltanto da dove vieni...»
A Kraj Donji lasciamo il van per paura di restare impantanati nella neve e proseguiamo a piedi lungo la rete verde che segna il confine. Fotografiamo il filo spinato, cercando di cogliere l'eco di passi, voci, emozioni, ma ci risponde soltanto lo sbattere della bandiera europea nel gelido vento.


Sulla strada di ritorno veniamo affiancati da un'auto della polizia che ci scorta di nuovo al valico di Harmica. Il nostro aggirarsi al confine ha destato allarme e spiegare che siamo stati finanziati dall'Unione Europea per rovistare in ciò che resta della crisi migratoria non fa che peggiorare la situazione. Soltanto a scopo artistico, ci affrettiamo a spiegare. A questo punto ci fanno aprire gli zaini, rovistano sospettosi fra gli obiettivi e allora non sono più soltanto i bosniaci a sentirsi schiacciati dallo stivale militare della legge.
Un'ora dopo siamo liberi di proseguire verso Bregana, dove il filo spinato non attraversa campi incolti, ma spezza i cortili popolati da camicie spettrali, congelate in aria. Spaventapasseri? No, spaventaprofughi.


Il confine corre, divide in due gostilna Kalin, metà a Bregana, l'atra metà ad Obrežje. La linea verde che separa due stati, impolverata sotto il tavolo da biliardo e sulla parete la foto di un barboncino che piscia sul cippo di confine. Gospodin Kalin è sloveno, gospođa Kalina – croata, lui è esule in bagno, lei – in cucina, mentre nel vicolo senza sbocco sul retro, una guardia di frontiera vigila che non si sentissero troppo a casa.
«Mia madre è bosniaca, mio padre – serbo» racconta Armin. «Quando diventò un problema avevo sei anni. Iniziai a studiarmi allo specchio, domandandomi quale fosse la mia metà sbagliata? Le bombe che cadevano in strada, l'avrebbero saputo riconoscere? Si poteva sopravvivere dimezzati?»




E mentre Armin correva fra i palazzi sventrati di Sarajevo, nel bosco di Bijeljina il padre di Mitar incontrava un ex collega, si facevano una sigaretta in compagnia e il mattino seguente riprendevano a spararsi addosso... E tu viaggiavi attraverso ciò che restava della Jugoslavia, la via più breve per l'Italia, ma anche la più pericolosa. Fingendo di ignorare i lontani scoppi di mortaio, ascoltavi le storie di Mišo il Pittore, perché lui in Italia c'era già stato. Filatosela ancora ai tempi del comunismo, la sapeva lunga...
«In Bulgaria facevo le personali, io, ero uno stimato! Ma non mi bastava, volevo sfondare oltrecortina. Mi aizzavano i soldi, la fama. Così arrivai a Roma e mi misi a girare le gallerie d'arte. Le tele tiravano, altroché, però quando si arrivava al dunque e venivano a sapere che ero bulgaro, ritiravano le offerte. S'era ai tempi dell'attentato al papa e c'era forte ostracismo, estremisti tiravano sassi contro le vetrine, eravamo visti proprio male... Poi mi presero alcuni quadri in una galleria all'Eur e in pochi giorni si vendette tutto. Mi offrirono pure un contratto: venti dipinti al mese per un milione di lire, che poi non erano manco tanti, meno di mille dollari, ma a me, affamato com'ero, parvero una manna dal cielo. Mi sistemarono in un appartamento a Ostia, poi mi fecero trasferire in una villa ad Ancona. Se non stavo chiuso a dipingere, bevevo insieme a Federico, il custode. Fu lui a svelarmi il retroscena: la galleria e la villa appartenevano alla camorra e i miei quadri erano soltanto un mezzo per riciclare denaro. Venivano esportati negli USA, dove invece del valore reale di duemila dollari, dichiaravano una vendita fittizia per ventimila ed ecco a voi, signori, un mucchio di bigliettoni lavati pulitissimi! M'impaurii e scappai, me ne tornai a casa mia, ma la fame è fame, gente, ed eccomi di nuovo sul mercato perché se vuoi fare l'artista devi essere anche un po' puttana... Beviamoci sopra, va...»
Vorresti urlare per contraddirlo e invece accetti la bottiglia e anneghi l'indignazione nell'acquavite.
L'ingenuità è la tua debolezza. Ma anche la tua forza.

Incontriamo Ahmad, il Fortunato, a Zagreb, davanti al Hotel Porin. Una mastodontica struttura di stampo socialista adibita a centro di accoglienza. Ahmad è iracheno, la sua richiesta di ricongiungimento familiare con i genitori che vivono in Svezia è stata respinta. Eppure lui sorride. Dice che la stanza al Porin è calda, il cibo – buono. Sta andando in palestra, nel pomeriggio ha lezione di chitarra. Ci saluta e corre via. Alla scadenza del suo permesso croato mancano un mese e sei giorni.
Prima che le guardie ci mandino via, fotografiamo i bagagli stipati sui balconi del Porin e il viavai di orme nel cortile.
Biciclette abbandonate nella neve. Scaglie di ruggine sotto la vernice sgargiante.
Chi le ha usate durante la bella stagione, è ripartito. Chi è ancora qui, sa che non lo sarà per molto. L'incertezza è la regola, la serenità – un'eccezione.
Anime sempre più corrose sotto lo smalto della speranza.
Transitorietà.


Lasciata la capitale, ripercorriamo a ritroso la rotta dei migranti. Fotografiamo i centri di Ježevo, Kutina e Slavonski Brod dall'esterno. Non è permesso entrare, nemmeno nell'ultimo, già sgomberato, eppure sorvegliato a vista. Nelle finestre sbarrate le nostre ombre si aggirano smarrite, rigettate, clandestine.

Alla frontiera serba sostiamo davanti ad un altro gabbiotto che spara domande. Stavolta ci siamo fatti furbi, intendiamo fare semplicemente un giro turistico a Šid.
La risata arriva grassa, ci insegue beffarda, ma siamo già oltre, i passaporti regolarmente timbrati. Protetti dai vetri scuri del nostro comodo van, turisti sulla Western Balkan Route.
Nel marzo 2016 Europa ha blindato le frontiere e migliaia di migranti, sono rimasti intrappolati in Serbia. Ammassati in motel come questo, affacciato sull'autostrada E70 che attraversa due continenti, dieci stati e un mare, ma per loro non porta più da nessuna parte.
Republic of Serbia. One Stop Centre Adaševci.
Alla vista delle macchine fotografiche le guardie si fanno arcigne, come se la bambina che gioca alle loro spalle fosse un segreto militare.
Lei alza la manina e saluta fiduciosa il Mondo oltre la rete puntuta, la stessa del confine sloveno.
Perché il più naturale dei gesti mi fa sentire così maledettamente in colpa?


Ahmad, lo Sfortunato, vive nella boscaglia di Šid. The Jungle la chiamano i suoi compagni di sventura. Gli ultimi degli ultimi. Cacciati dal centro di accoglienza perché pregiudicati. Arrestati nel tentativo di entrare clandestinamente in Croazia. Più volte. Picchiati e derubati dai poliziotti. Più volte.
Moussa, ci mostra sul telefonino la foto di un incisivo insanguinato, poi indica in bocca il buco del dente mancante. Penso al suo omonimo, Mosè, che aprì le acque del mare per far passare i profughi. Con il suo bastone magico sarebbe stato in grado di sbrogliare anche il filo spinato? Razor wire, nastro rasoio, studiato apposta per tagliare la carne.
Ahmad, lo Sfortunato, ci offre un pezzo di pollo, arrostito sulla legna del bosco dove pochi giorni prima si è impiccato un suo amico. Ha l'occhio destro tumefatto, Ahmad, e il sinistro – luminoso, dalle ciglia di velluto. Quando arriverà in Europa, farà l'attore, dice, adora il cinema francese. Si gratta impensierito la barba incolta. Sono mesi che non si guarda allo specchio.
«Ho uno specchietto nella borsa» propongo partecipe.
Ahmad scuote la testa. Restare nessuno in questa terra di confine - non più di qua, non ancora di là – è questione di sopravvivenza. Fisica, ma sopratutto dell'anima. Riconoscersi nello specchio farà saltare le argini della nostalgia. Scoprirsi diversi – quelle dell'incertezza e della paura.
La frontiera è uno specchio deforme da rompere ad occhi e pugni chiusi.
Ma quando, anni dopo, rientrerà in patria, credendosi vincitore, saranno gli specchi d'infanzia a non riconoscerlo.
Mia madre lo sapeva.
Oggi lo so anche io.


Zagreb – Šid, febbraio 2018





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