INTERVISTA per STAMP Toscana

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Guergana Radeva, ingegnere per svista, scrittrice per vocazione

di Sara Capolungo

Firenze – La Toscana vista dagli occhi di chi viene da lontano. Donna, scrittrice affermata, Guergana Radeva è un’ingegnere per svista e girovaga per indole- come le piace definirsi- che ha vissuto in luoghi diversi della nostra regione fermandosi, per ora, in Maremma. Del suo primo periodo livornese conserva l’accento labronico e l’amore per Il Vernacoliere.
L’abbiamo incontrata a Scansano, dove attualmente vive, e dove ci ha raccontato un po’ di sé, e delle impressioni che ha avuto sulla nostra regione. Conserva ancora come una reliquia il suo primo dizionario d’italiano così consumato che ha perso alcune pagine. E sull’integrazione afferma che “c’è più ostilità al giorno d’oggi che vent’anni fa”. Dopo i primi anni di difficoltà ora però può affermare di sentirsi a casa.
Guergana, bulgara di Sofia, lei è in Italia dal 1992, e al momento abita in provincia di Grosseto. Ci racconta il suo arrivo nel nostro Paese? Cosa ricorda?
“Arrivai in Toscana per caso, tramite un annuncio avevo trovato lavoro a Tirrenia, in seguito ho gestito un Irish pub a Livorno e nel 2001, sempre per motivi di lavoro, mi sono trasferita a Scansano. Mi sono trovata bene ovunque, tutt’oggi parlo un italiano labronico e sono una fan de Il Vernacoliere”.
Vive qui da sola? Torna spesso in Bulgaria?
“Mio marito è nato a Pisa da genitori sardi, è cresciuto in Germania e dice che un giorno, da pensionato, vivrà in Bulgaria. La vita gira, potrebbe anche succedere. In ogni caso, torno a Sofia una o due volte all’anno per trovare i miei genitori, la famiglia di mio fratello e gli amici, anche se lamaggior parte, ormai, è sparsa per il mondo, dal Sudafrica al Canada, beh, per fortuna c’è l’internet”.
Nei primi anni del suo arrivo in Italia, si è mai sentita sola o poco accettata? E oggi?
“Nei primi mesi in Italia abitavo insieme ad alcune amiche bulgare, poi mi sono sposata,quindi non mi sentivo sola, ma più che altro spaesata. Non c’era solo il problema della lingua, ma anche quello di capire come funzionavano le istituzioni, la sanità, cose che in patria diamo per scontate. Mi fu consegnato subito il codice fiscale per mettermi in regola con i tributi, ma non la tessera sanitaria. Una mattina mi svegliai con un atroce mal di denti, non sapevo dove sbattere la testa e tanto di cappello a quel dentista dell’ospedale Santa Chiara di Pisa che mi curò, fregandosene della burocrazia. Devo dire che non mi sono sentita poco accettata, forse anche per il fatto che lavorando nei pub, ho sempre avuto a che fare con ragazzi giovani, sia come colleghi che come clientela, pochissimi pregiudizi, molta apertura e curiosità, è vero anche che stiamo parlando dei primi anni novanta, quindi più posti di lavoro e certa stabilità economica. Percepisco più ostilità oggigiorno rispetto a vent’anni fa, anche se non direttamente nei confronti della persona che si ha davanti, ma piuttosto contro i migranti intesi come massa, in senso ampio e un po’ astratto. Un fenomeno che sto osservando anche in Bulgaria, purtroppo abbiamo fatto presto a dimenticare il nostro stesso passato di emigrati”.
Si definisce un’ingegnere “per svista”. Cosa intende? E ha provato a fare l’ingegnere in Italia?
“Per svista” perché ero giovane e mi sono lasciata influenzare dai miei genitori, entrambi ingegneri, anche se durante gli anni di studio ho passato più tempo nella redazione del giornalino universitario che nelle aule. Se il comunismo non fosse crollato pochi mesi prima della mia laurea, probabilmente la mia vita avrebbe preso una strada diversa. Per mettermi alla pari in Italia avrei dovuto rifare gli esami dell’ultimo anno, stavo ancora imparando la lingua, ma soprattutto non avevo né il tempo né i mezzi economici per rimettermi a studiare, campavo letteralmente alla giornata. Ma non mi sento particolarmente dispiaciuta, ho trovato comunque la mia strada”.
Veniamo alla sua passione per la scrittura. Lei ha vinto tanti premi letterari e la possiamo definire una scrittrice affermata. É stato difficile imparare a parlare e scrivere in italiano? C’è un autore o autrice italiana a cui si è ispirata per i suoi racconti? Chi sono i suoi scrittori preferiti?
“Ho sempre sentito la necessità di scrivere, credo che avrei scritto dovunque e in qualsiasi lingua. Non avevo ancora un bagaglio lessicale ricco a sufficienza né abbastanza tempo libero da dedicare alla scrittura, ma ricordo che scrivevo sui posti di lavoro, sui blocchetti delle ordinazioni, mentre aspettavo che i clienti finissero di spulciare il listino e si decidessero ad ordinare, per un certo periodo scrissi mischiando bulgaro e italiano, testi che capivo solo io. Raccoglievo questi foglietti scarabocchiati e a casa li trascrivevo. Ai tempi non avevo il computer né programmi di correzione automatica, solo una vecchia macchina da scrivere che faceva tanto rumore da costringere i vicini a battere sulle pareti, ero sempre a corto di bianchetto, controllavo l’ortografia parola per parola nel dizionario che non ne poteva più e alla fine aveva preso a perdere le pagine. Sembrava una specie di bibbia tramandata da generazioni, lo conservo tutt’oggi, ma ormai ha un valore sopratutto affettivo.
Degli scrittori italiani mi piace leggere Moravia, Calvino, Tabucchi, Fois, ma sento vicina soprattutto la narrativa femminile, amo Mazzucco e Mazzantini, fra i romanzi più forti che abbia mai letto: Un uomo di Oriana Fallaci”.
Tra i numerosi premi letterari che ha vinto, quale ricorda con maggiore soddisfazione, e perché?
“Mi è rimasto nel cuore il premio Lingua Madre (concorso letterario nazionale espressamente dedicato alle donne straniere che scrivono in italiano, ndr). Decine di donne di ogni età e da ogni parte del mondo, ognuna con una rosa in mano e una luce nuova negli occhi, la gioia del riconoscimento e la consapevolezza di potercela fare, sensazioni insostituibili in una terra straniera. Quel giorno ho fatto delle bellissime amicizie che si sono rivelate durature nonostante il tempo che passa e le distanze che ci separano. La pubblicazione che mi è più cara, invece, non è un romanzo, bensì una piccola poesia inclusa in un’antologia scolastica, edita da Zanichelli. Felicissima di poter condividere il mio pensiero con migliaia di ragazzi italiani nella lingua che ho imparato ad amare, ma anche un tantino delusa, in quanto sono venuta a conoscenza di questa pubblicazione per caso, sfogliando il quotidiano locale. Da un editore di simile portata mi sarei aspettata almeno la cortesia di una comunicazione. È comodo apparire politicamente corretti, dare voce all’arte migrante fa apparire generosi negli occhi del grande pubblico, ma non illudiamoci, il mondo non cambierà finché non tendiamo una mano anche nel nostro piccolo, senza scopo di lucro e al riparo della luce dei riflettori. Frammenti anche questi di vita migrante…”.

C’è stato un momento particolarmente difficile- se ce lo vuole raccontare- in cui ha pensato di aver commesso un errore a venire in Italia?
“Durante i primi anni ho avuto spesso la voglia di mollare, credo sia normale, fa parte del processo di integrazione, della muta d’identità. Perché la nostalgia, più che la mancanza del proprio paese, credo sia la perdita di noi stessi nel contesto dei luoghi e degli affetti familiari, la perdita della pelle protettiva della nostra abituale identità. Ma se da un lato la nostalgia è causa di malessere, dall’altro può diventare uno stimolo di rivincita e per me, personalmente, questa spinta ha trovato realizzazione nella scrittura. Ora che scrivo e sogno in italiano, qui mi sento a casa. Sono a casa”.
Un’ultima domanda. Se potesse tornare indietro nel tempo, cosa cambierebbe della sua vita?
“Qualche anno fa probabilmente avrei risposto diversamente, ma ora credo di aver raggiunto il giusto equilibrio fra lavoro manuale e intellettuale, il primo per far sopravvivere il corpo, il secondo – l’anima. Posso concedermi tempo per la scrittura e libertà artistica, quindi mi sento in pace con me stessa. Sono cose che non cambierei”.

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